Lettera a Tom, un amico che non c'è più
Questa è per te, Tom.
Con affetto,
Luca.
Chi eri.
Sei stato un Gatto con la G maiuscola, Tom.
Il migliore della regione, diceva qualcuno. Non è mai stato certificato, ma sono propenso a credere che fosse davvero così.
Giocoso fino a quando nei hai avuto voglia, come ogni gatto che si rispetti eri pigro, veramente pigro. Se mai faranno un dizionario per immagini, alla voce “spaparanzato” dovranno metterci la tua foto svaccato sul pavimento, in estate, appena fuori dalla casa nuova.
C’era una cosa però che ti faceva scattare come Bolt in versione Pechino: il cibo. Ah, quello era sacro. Quando qualcuno si avvicinava alla cucina, non c’era scampo. Il miagolio era sistematico, ripetitivo, penetrante: qualcuno lo prendevi per pena, qualcun altro per sfinimento. Ma alla fine cedevamo tutti.
Quel miagolio! Il tuo “miek-mieo” stridulo, con cui svegliavi tutta la casa quando la mattina mi preparavo per andare al lavoro, era così particolare che c’era chi commentava: «Ma è un gabbiano o un gatto?!». Eri un po’ così, Tom: ci hai sempre fatti sorridere, qualche volta ti prendevamo in giro – come la mamma che ogni tanto si divertiva a farti qualche piccolo dispetto – ma hai sempre incassato da gran signore qual eri.
Eri un po’ certosino un po’ europeo, al punto da confondere persino il veterinario. Forse è per questo che sapevi essere alla buona, ma anche esibire grande contegno e dignità.
La stessa dignità con cui te ne sei andato: ormai senza la forza nemmeno per camminare, ti sei ribellato al dottore che voleva metterti la flebo. E poi ci hai lasciati.
Cose che non dimenticherò mai di te.
I tuoi soprannomi. Innumerevoli, come accade per ogni personaggio pubblico (ormai di fatto lo eri). Da quello più antipatico che ti avevano dato i miei compagni delle medie fino al più recente Scudo Pavese, coniato da quegli stessi cari amici che ti hanno dato il nomignolo che preferisco, don Tom. Soprannome che onoravano a ogni visita, passando a salutarti prima di sedersi al tavolo quasi fosse un atto dovuto.
Qualcuno ti chiamava, affettuosamente, botolo – anche se in effetti eri solo un po’ grassottello… o almeno, non eri corto e tozzo! Dall’epoca d’oro in cui sfioravi i 10 chili, comunque, di certo eri dimagrito un bel po’.
Io ti ho sempre chiamato per nome, anche se spesso indugiavo in qualche vezzeggiativo dettato dal grande affetto che provavo per te. Sei sempre stato il mio cucciolo, anche a 18 anni suonati che per un gatto sono quasi 90.
E poi ricordo come fosse ieri il giorno in cui sei arrivato. Dopo aver desiderato un gatto per dieci lunghi anni, senza poterlo avere a causa dell’asma, vederti sbucare dalla camicia del babbo che tornava dal lavoro è stata una delle sorprese più belle della mia vita.
Ricordo – perché mi è stata raccontata – la tua insistenza per salire su quell’autobus, per scegliere la nostra famiglia e non un’altra con cui vivere. E il legame speciale che da quel giorno ti ha legato a chi ti aveva portato a casa.
E ricordo i primi giorni, le discussioni per decidere il tuo nome – forse un po’ banale, ma che ti calzava a pennello, tanto che rispondevi sempre quando venivi chiamato. Ricordo tutto il latte che hai bevuto appena entrato in casa. E quel collare azzurro con il campanellino, che era il tuo tratto distintivo ma che dopo un po’ abbiamo dovuto toglierti perché ti andava stretto.
La tua cesta nella casa vecchia, i tuoi cuscini logori, la tua copertina preferita e le infinite altre su cui hai dormito nella tua vita. Le dormite nella scatola dei Lego, in borse, zaini, scatole e scatoloni, che spesso ti contenevano a fatica. L’abitudine degli ultimi anni di dormire nella fioriera e quando – mi sembra un secolo fa – stavi sopra la tv e con la zampa inseguivi la palla durante le partite di calcio.
Le due settimane a Maiolo, la tua unica vacanza con noi. Quando a un certo punto temevamo fossi scappato, ma poi sei tornato. Come sempre. La tua fedeltà, neanche fossi un cane, mi resterà nel cuore.
E la ferocia esibita, sempre a Maiolo, con quel topo che avevi catturato? Lo ricordo ancora, poverino, tentare di scappare mentre lo tenevi per la coda, ringhiando deciso per difendere la tua preda anche contro di noi, che venivamo solo a vedere cosa stava succedendo.
O quando ci hai portato a casa un toporagno catturato nell’orto. Oppure – questo è un ricordo speciale perché è solo tuo e mio – quella notte in cui mi hai regalato un pipistrello. Sento miagolare alla porta, mi alzo io che ho il sonno leggero mentre tutti continuano a dormire. Apro, senza occhiali né lenti a contatto, e vedo che appoggi qualcosa per terra, ma non riesco a vedere bene, se non che è un piccolo cartoccio nero. Tu mi guardi, e miagoli: «Avanti, prendilo. È per te». Io purtroppo non so che farmene di un regalo del genere, quindi lo appallottolo in uno scottex e lo butto via (solo la mattina dopo, con gli occhiali, riuscirò a capire cos’era). Vedo il tuo sguardo contrariato e triste; del resto, a caval donato non si guarda in bocca. Ma era bastata una carezza perché passasse tutto. Come sempre.
Come negli ultimi giorni che abbiamo vissuto insieme. Quando in preda all’ansia ti ho portato dal veterinario, visita, puntura e il giorno dopo di nuovo. Sei rimasto arrabbiato con me solo il tempo del viaggio fino a casa, e poi alla prima carezza di nuovo le fusa. Non mangiavi, ma la forza per dirmi che mi volevi bene ce l’avevi ancora.
Arrivare a casa e vederti avvolto in un asciugamano, senza vita, mi ha fatto male. Ma per fortuna te ne sei andato serenamente, senza soffrire. Insieme al biglietto che ti ho scritto, appoggiato vicino alla testa quando ti abbiamo seppellito. Con parole che rimarranno un segreto tra noi due.
Con te porti l’affetto di una famiglia che ti ha voluto un bene inossidabile. E la simpatia di tanti amici, parenti e conoscenti che chiedevano come stavi, passavano a salutarti, non ti facevano mai mancare una carezza.
Ti porti dietro ricordi piccoli, come le tue camminate in equilibrio impossibile sulla ringhiera del terrazzo nella casa vecchia, al secondo piano. E imprese epiche come il Furto della Salsiccia, che resteranno negli annali e saranno trasmesse alle generazioni future tra i racconti della famiglia.
E ancora la tua prima neve in via Buozzi, il caldo infernale della prima estate in casa nostra quando non eri l’unico ospite. E il rapporto di amore-odio con Dado, il tuo unico coinquilino felino per una breve parentesi di tre anni.
O i regali di Natale, che progressivamente hai ignorato sempre più, dimostrando maggior interesse per l’incarto dei nostri e per le decorazioni dell’albero. O ancora il tuo primo compleanno, con quella candelina appoggiata sulla scatoletta che non ti sei arrischiato a mangiare – con grande delusione di noi due bambini – perché era appoggiata sul tavolo dove ti era stato insegnato che non dovevi andare.
E una quantità infinita di fusa, coccole e affetto, incalcolabili per numero e valore. Nati da un legame vero, senza parole ma ricco di empatia, presente tutti i giorni e saldo nei momenti difficili.
Ma più di tutto, ricorderò per sempre il giorno in cui ci hai lasciati. Il giorno in cui ti abbiamo seppellito, a mani nude, in ginocchio e con la terra sotto le unghie. Io, mio padre e mio fratello, tre uomini adulti in lacrime per tutto il bene che ti hanno voluto e per tutto il bene che tu hai voluto a tutta la famiglia.
Addio Tom, e grazie per averci regalato 18 meravigliosi anni di affetto fedele e disinteressato, come solo gli animali sanno fare.
Addio.
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Da che ho memoria, Don Tom è sempre stato con voi, parte integrante della vostra famiglia. Mi dispiace veramente tanto, ma credo che la sua vita sia stata piena e meravigliosa, grazie soprattutto a voi che lo avete accolto. Era un grande gatto ed un grande amico.
बुद्ध तुम जो साथ.
Ci credo bene che lo ricordi come una presenza costante, Enri, quando Tom è arrivato con noi tu avevi appena due anni…
Hai ragione, comunque: la mia consolazione in questo momento è pensare alla bella vita che ha vissuto, ai tanti momenti felici insieme e al fatto che se n’è andato senza soffrire.