Luca Rasponi

Giornalista e addetto stampa, scrivo per lavoro e per passione.

Egitto, la voce della piazza e l'autorità dei militari

1 settembre 2013

Pubblicato su

L’Egitto è una polveriera. L’Egitto farà la fine della Siria. La rivoluzione in Egitto è finita ancora prima di cominciare. Su quanto sta accadendo nel Paese delle piramidi non vi è certezza. L’unico dato certo è la fluidità della situazione attuale, uno scenario potenzialmente in grado di cambiare in ogni attimo come dimostra il recente passato, dove a brevi momenti di stabilità si sono alternate fasi di burrascoso cambiamento.

E se non fosse così? E se dopo la rivoluzione del gennaio 2011 nulla fosse più cambiato, nonostante le elezioni e la deposizione del governo democraticamente eletto? La situazione egiziana, al di là della complessità intrinseca che contraddistingue tutti i grandi mutamenti politici e sociali di medio e lungo termine, si presta a diversi livelli di lettura. Partiamo dal più semplice.

Tutto è cominciato all’inizio del 2011, quando una massiccia insurrezione popolare – iniziata parallelamente a quella tunisina e perciò cuore pulsante della Primavera Araba – ha costretto alle dimissioni il Presidente della Repubblica Ḥosnī Mubārak, al potere dal 1981. In una situazione di grave disagio politico, economico e sociale, il 25 gennaio 2011 circa 25mila egiziani sono scesi nelle strade del Cairo a manifestare contro il regime, accompagnati da identiche proteste nelle maggiori città del Paese.

Dopo settimane di tensione altissima tra scontri e vani tentativi di mediazione, l’11 febbraio Mubārak rassegna le sue dimissioni, dando il via ai festeggiamenti di piazza Tahrir, principale spazio pubblico del Cairo divenuto nel frattempo il luogo simbolo della rivoluzione. A farsi garante della transizione democratica è l’esercito: il Consiglio Supremo delle Forze Armate, infatti, decreta la sospensione della Costituzione fino allo svolgimento di nuove elezioni.

Cominciano quindi lunghi mesi in cui le principali forze politiche di opposizione al regime di Mubārak – nel frattempo arrestato e sottoposto a processo – tentano di stabilire una road map di avvicinamento alle elezioni in accordo con i militari. Tra le proteste della piazza, la cui attenzione non accenna a scemare in attesa di un cambiamento reale, due governi di transizione nominati dal Consiglio Supremo delle Forze Armate si alternano alla guida del Paese: a quello di Essam Sharaf (marzo-novembre 2011) segue l’incarico a Kamal el-Ganzouri, che rimarrà primo ministro sino alle elezioni della primavera 2012.

Proprio nel corso del mandato di el-Ganzouri, infatti, arriva l’annuncio tanto atteso: le prime elezioni democratiche del dopo Mubārak si terranno in due turni tra maggio e giugno 2012. A vincerle con il 51,7% dei voti è Mohammed Morsi, candidato per il partito islamico dei Fratelli Musulmani che si impone al ballottaggio. Ahmed Shafik – primo ministro nell’ultimo governo del presidente Mubārak, che nel frattempo è stato condannato all’ergastolo – si ferma al 48,3%, mentre il voto laico si disperde tra i numerosi candidati al primo turno.

I Fratelli Musulmani escono vincitori dalle urne potendo contare su una struttura consolidata presente su tutto il territorio egiziano fin dal 1928, in grado di offrire assistenza materiale e spirituale ad una popolazione martoriata da decenni di dittatura e povertà. Un vero e proprio Stato nello Stato, una sorta di welfare parallelo a quello pubblico capace di generare un consenso ampio e diffuso tra gli egiziani.

Da subito il percorso del governo Morsi, però, non è agevole: composto escludendo forze liberali e laiche, il nuovo esecutivo si trova stretto nella morsa dei militari da un lato e dell’opinione pubblica dall’altro. Le forze armate non sembrano accettare una riduzione del proprio potere, mentre le proteste riprendono vigorose non appena Morsi annuncia un decreto per sottrarre il proprio operato al giudizio dalla magistratura. Proposito dal quale sarà costretto a recedere nel novembre 2012 a causa delle manifestazioni popolari di dissenso.

Ma lo scoglio più duro deve ancora essere affrontato. A fine 2012 viene infatti redatta una bozza di Costituzione basata sulla Shari’a, la legge islamica derivata dal Corano, che restringe le libertà espressione e associazione. Approvata tramite referendum popolare e poi convertita in legge per decreto dello stesso Morsi, la nuova Costituzione diventa la causa principale delle nuove manifestazioni contro il governo.

La situazione degenera rapidamente, con tensioni e scontri che lasciano a terra decine di morti nella prima metà del 2013. Fino al colpo di scena del 27 giugno scorso, quando i militari si fanno nuovamente carico della “pacificazione” del Paese deponendo il Presidente eletto Morsi. A sostituirlo fino a nuove elezioni è chiamato Adly Mansour, presidente della Corte Costituzionale, mentre le proteste dei Fratelli Musulmani non accennano a placarsi.

Questi, a grandi linee, i fatti che hanno portato l’Egitto dalla rivoluzione del 2011 alla situazione odierna. Uno sguardo rapido a questa sequenza di eventi potrebbe suggerire che la transizione verso un governo autenticamente democratico sia stata frenata da numerosi fattori, dalla mancanza di stabilità dovuta alle continue manifestazioni di piazza – mai davvero cessate – alla volontà dei Fratelli Musulmani di imporre un governo e una Costituzione troppo marcatamente islamisti per essere tollerati da tutte le minoranze del Paese.

Ma c’è, nemmeno troppo nascosto tra le pieghe dei fatti, un inaspettato fattore di continuità in una situazione magmatica come quella egiziana: il ruolo delle forze armate. La rivoluzione del 2011 è stata innescata dai fatti tunisini e accelerata dai social network per poi esplodere nella pubblica piazza, fino alle dimissioni di Mubārak. Ma sono stati i militari, “garanti della transizione democratica” a decretare di fatto la caduta del presidente, aprendo a due governi provvisori da loro stessi nominati.

Dove prima c’era il feldmaresciallo Mohammed Tantawi a decidere la fine di Mubārak salvo poi essere silurato da Morsi, a fine giugno il ruolo di “uomo forte” è toccato al generale Abdel el-Sisi, che ora detiene di fatto il potere solo formalmente assegnato a Mansour. E che per dare un segnale di distensione (o di restaurazione?) ha fatto liberare Mubārak dalla prigione in cui era detenuto, la stessa in cui è stato rinchiuso Morsi.

La Storia insegna che il coinvolgimento delle forze armate di Stato nelle rivoluzioni e nelle fasi di mutamento politico e sociale non ha mai portato nulla di buono. Da questo punto di vista, l’Egitto non fa eccezione. E allora diventa inevitabile chiedersi: come si è svolta realmente la rivoluzione del 2011? Chi ha tratto maggior beneficio da quanto è accaduto?

E ancora: chi detiene realmente il potere nel Paese, e di conseguenza l’autorità per far cadere un governo? La popolazione o i militari? E come viene esercitata questa autorità? Con il voto e le manifestazioni di piazza o con le manovre occulte e i colpi di Stato? A coloro che manifestano pacificamente per quello in cui credono, al di là dell’appartenenza religiosa, sociale e politica, spetta il difficile compito di non tirarsi indietro di fronte alla forza bruta dei militari. «In modo che ciò possa costituire una lezione nella storia ignominiosa di coloro che hanno la forza ma non la ragione» (Salvador Allende, 11 settembre 1973).

Tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Commenti

Un commento per Egitto, la voce della piazza e l'autorità dei militari

  1. Lorenzo Sarti scrive:

    Finalmente mi è più chiara la situazione egiziana, grazie Luca!
    L’unica cosa che non capisco è questa: ma ci sono due tipi di manifestazioni? Perché quelle fatte dai cosiddetti “Fratelli Mussulmani” sembravano tutto forche pacifiche, sopratutto nei confronti delle minoranze religiose, vedi quelle cristiane… Ci sono delle manifestazioni parallele di chi vuole uno stato laico tipo quelle viste in Turchia?

    • Luca Rasponi scrive:

      Grazie a te per i complimenti, Lorenzo! 🙂

      Allora, se non ho capito male la situazione egiziana le manifestazioni hanno avuto quattro ondate principali, come emerge anche dall’articolo:

      1) gennaio-febbraio 2011, manifestazioni anti-Mubarak con protagonisti Fratelli Musulmani, laici e tutti gli altri oppositori al regime;

      2) febbraio 2011-inizio 2012, manifestazioni anti-militari, con gli stessi soggetti dell’ondata precedente a chiedere elezioni democratiche dopo aver ottenuto le dimissioni di Mubarak;

      3) fine 2012-aprile 2013, manifestazioni anti-Morsi con l’opposizione laica (spesso a fianco dei sostenitori dell’ex dittatore Mubarak) a protestare contro l’accelerazione islamista del governo;

      4) luglio 2013-oggi, manifestazioni pro-Morsi per protestare contro la sua deposizione, con i fratelli Musulmani in prima linea.

      In tutto questo, soprattutto nelle fasi che hanno visto protagonisti della piazza i Fratelli Musulmani, si sono registrati violenti attacchi contro i cristiani copti dell’Egitto, “tollerati” da Mubarak e anche per questo visti dalle frange più estreme dei sostenitori di Morsi come il principale ostacolo alla “islamizzazione” del Paese (quando invece il dissenso rispetto ad un’operazione del genere era stato trasversale nella società egiziana).

      In altre parole, il quadro è piuttosto complesso, e per quanto gli attentati ai copti siano chiaramente di matrice islamica, fare l’associazione diretta Fratelli Musulmani-violenza secondo me è fuorviante, visto che non tutti i sostenitori di Morsi sono dei violenti (non bisogna inoltre dimenticare il pericolo costante di infiltrazioni terroristiche in situazioni di questo genere, soprattutto da parte di al-Qaeda).

      Questa a grandi linee l’idea che mi sono fatto della situazione, ma non sono un esperto di Medio Oriente, quindi se qualcuno ha testimonianze dirette o notizie più fresche delle mie è il benvenuto in questo piccolo dibattito 🙂

      • Anonimo scrive:

        Risposta più che esaustiva! Grazie Luca!
        Da quello che si percepisce siamo di fronte ad un paese molto diviso con un cuore esplosivo..!! Peccato perché è uno stato che possiede tante potenzialità al suo interno ad incominciare da quelle storico/turistiche, mi auguro che si riesca a trovare una via d’uscita, anche se coi tempi che corrono non sembra facile!

        • Luca Rasponi scrive:

          Come non condividere il tuo auspicio, Lorenzo? Temo però, come te, che la strada verso una società realmente democratica sia lunga e difficile, basta pensare al punto morto in cui siamo noi dopo quasi settant’anni… certo è che in un modo o nell’altro gli egiziani ce la devono fare da soli, speriamo riescano a trovare quanto prima la loro strada!

  2. Andrea Trioni scrive:

    Anche da parte mia i complimenti all’articolo di Luca!
    Per approfondire la situazione egiziana e la sua recente storia suggerisco la lettura di questo articolo del prof. Gilles Kepel su L’Huffington Post: http://www.huffingtonpost.it/gilles-kepel/egitto-la-terza-fase-delle-rivoluzioni-arabe_b_3784170.html

  3. morena scrive:

    Grazie per aver chiarito anche le mie di idee, ottimo.

    “Sono pronto a resistere con ogni mezzo, anche a costo della vita, in modo che ciò possa costituire una lezione nella storia ignominiosa di coloro che hanno la forza ma non la ragione.„

    Questa frase l’avevo scritta sul mio diario ai tempi delle Magistrali….

    • Luca Rasponi scrive:

      Allende è un simbolo senza tempo di integrità e coerenza di fronte alla brutalità e all’ingiustizia che schiacciano ogni cosa, è una sorta di ginestra leopardiana che rimarrà per sempre un esempio per tutti quelli che scelgono di non chinare la testa di fronte ai soprusi. «Utile da morto come da vivo», tanto per citare un altro illustre comunista del passato.

Rispondi a Anonimo Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *